Stiamo aspettando di salpare dal porto di Siracusa in cui siamo attraccati da tre giorni in attesa che il mare agitato a sud di Lampedusa – nostra zona di azione - si calmi. Noi stazioneremo in questo fazzoletto di mare in un’azione di osservazione e vigilanza con l’obbiettivo di avvisare immediatamente le autorità competenti in caso di avvistamento di qualche imbarcazione di profughi. (*)
L’attesa è un movimento elementare
dell’essere. E’ un fondamentale dello Spirito, l’esercizio quotidiano del
disporsi a qualcosa o qualcuno che ci trascende. L’attesa è forse il primo
passo verso Dio, o forse è il Suo Primo Passo verso di noi, l’Atteso che non
sappiamo aspettare e da cui solo sappiamo aspettarci. L’attesa in fondo è il
profumo della vita che, come ogni essenza, risveglia e anticipa il piacere.
L’attesa è nostalgia di futuro, è anticipazione di presente. Per noi dodici,
stipati in questa barca danzante, l’attesa piovutaci addosso in modo
inaspettato possiede il gusto amaro dell’imprevisto, la ruvidezza
dell’impedimento: è tempo in perdita. Per i migranti, fratelli di un dio
minore, attendere significa stillicidio di speranza. In questo momento sui due
versanti del Mediterraneo l’attesa ci unisce, l’attesa di uno sconosciuto
incontro tra sconosciuti. Il mare farà da testimone imparziale e dolorosamente
indifferente.
Si parte. L’attesa è ferita, versa morente
disposta a cedere il passo all’accadere che scolpirà gli eventi. E’ un
sacrificio necessario e sano. E’ uno scomparire che permette un apparire. Un
po’ come fa Dio, Eterno Esserci. Da oggi il mare sarà la nostra terra
insidiosa, volubile e misteriosamente ingovernabile e il cielo sarà specchio su
noi disegnando speranza.
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